La famiglia clarettiana internazionale ha concluso il 31 dicembre 2024 la commemorazione del 120º anniversario da quando il suo illustre missionario, Mariano Avellana Lasierra — riconosciuto come il più grande evangelizzatore del Cile tra il 1873 e il 1904 — donò la propria vita in un campo minerario nel nord del paese, una vita che aveva promesso di dedicare soprattutto ai malati, ai prigionieri e agli emarginati.
Come potremmo non riconoscere in questo la più grande prova d’amore, quella che, secondo Cristo Gesù, consiste nel dare la vita per coloro che si amano?
Da molti anni, il 14 febbraio è consacrato come il Giorno dell’Amore, e principalmente come la Festa degli Innamorati. Secoli fa si attribuiva a Valentino, un medico e pio sacerdote romano, il merito di aver protetto e sposato le coppie nonostante il divieto dell’imperatore Claudio II, il quale riteneva che il matrimonio fosse incompatibile con la carriera militare. Per questa disobbedienza, si dice che San Valentino sia stato martirizzato il 14 febbraio, intorno all’anno 270. A prescindere da queste tradizioni, la data è finita per essere dedicata, quasi per antonomasia, alla celebrazione e alla condivisione dell’amore di coppia.
Tuttavia, al di là del fatto che il commercio e il profitto abbiano distorto il significato autentico di una celebrazione così sublime, l’amore stesso è diventato una delle realtà più corrotte e degradate. Invece di essere inteso come dono di sé, fino a dare la vita per la persona amata, è stato trasformato in un diritto di possesso, di dominio, e perfino di annientamento e assassinio di chi, pur essendo stato amato, è diventato profondamente odiato.
Non è una semplice coincidenza che il giorno 14 di ogni mese, dedicato dalla famiglia clarettiana a ricordare l’eroica testimonianza d’amore di Mariano Avellana, questo febbraio coincida con il Giorno dell’Amore. Anzi, può essere considerata un’opportunità unica per mostrare sia ai credenti sia ai non credenti la sua piena testimonianza del vero amore. Come recita un bel canto: «Amare è donarsi, dimenticando sé stessi, cercando ciò che può rendere felice l’altro. Com’è bello vivere per amare; com’è grande avere per donare; donare gioia e felicità, donare sé stessi: questo è amare!»
Che Mariano Avellana abbia amato fino a donare eroicamente la vita, lo ha riconosciuto Papa Giovanni Paolo II dichiarandolo Venerabile nel 1987. Lo ha testimoniato la sua vita, nel modo instancabile in cui evangelizzò il Cile per 30 anni, in mezzo a grandi sofferenze e difficoltà, dedicandosi soprattutto ai malati, ai prigionieri e agli emarginati. E lo fece fino a cadere, stremato dalla morte, durante l’ultima delle sue centinaia di missioni.
Non aveva dimenticato il comandamento di Cristo alla vigilia della sua morte: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato». Né le parole decise di Giovanni, il discepolo prediletto: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore. Chi dice di amare Dio ma odia suo fratello è un bugiardo. Come può amare Dio, che non vede, chi non ama suo fratello, che vede?»
E così come Cristo amò i suoi amici fino a dare la vita per loro, Mariano si propose di donare la sua ai confini di un continente sconosciuto, là dove era stato inviato in missione. E lo realizzò pienamente.
L’anno avanza fino all’ottobre di questo emblematico 2024, in cui stiamo commemorando il 120° anniversario della Pasqua del Venerabile P. Mariano Avellana e il 175° anniversario della Congregazione Clarettiana. E in questo mese così chiaramente clarettiano non possiamo non valorizzare il carisma che il santo Fondatore impresse con fuoco nell’anima di Mariano e lo portò alla sua dedizione missionaria fino a dare la vita in essa. Senza questo impulso vitale sarebbe stato impossibile per il suo illuminato figlio evangelizzare senza riposo nella frontiera americana che aveva appena conosciuto; e lo fece in mezzo a enormi sofferenze fisiche e fino a cadere morto nell’ultima delle sue centinaia di missioni.
Un Paese di contrasti
Uno dei grandi scrittori ha definito il Cile una “geografia pazzesca”, notando che, oltre a essere il secondo Paese più lungo e più stretto del mondo, presenta quasi tutti i climi possibili, dalla “porta settentrionale” desertica ai ghiacciai dell’Antartide, dalla Cordigliera delle Ande all’Oceano Pacifico.
Tuttavia, i suoi enormi contrasti sociali – che, con livelli e sfumature diverse, si sono protratti per quasi 500 anni di storia – costituiscono un elemento di tensione quasi permanente che, nei 31 anni dell’instancabile apostolato di Mariano, era particolarmente intenso.
Paese minerario e agricolo per eccellenza, questa seconda caratteristica è stata la più estesa fino a tutto il XX secolo. Sebbene le miniere estrattive abbiano contribuito in modo essenziale alle casse dello Stato fin dai tempi di Mariano, l’agricoltura di sussistenza e lo scarso sfruttamento della terra in enormi latifondi che concentravano una grande povertà e un sistema feudale di proprietari terrieri, durarono a lungo. Nel frattempo, l’industrializzazione guidata dallo Stato guadagnava terreno e si consolidava in modo esemplare in America Latina.
Un punto di svolta trascendentale si aprì proprio quando Mariano mise piede in terra cilena nel 1873: nell’enorme area del deserto di Atacama boliviano-cileno-peruviano era stata scoperta la più grande concentrazione al mondo di un prodotto allora preziosissimo sia per la fertilizzazione agricola sia per la fabbricazione di materiali esplosivi nell’industria militare: il salnitro, una miscela di nitrato di sodio e nitrato di potassio che, insieme ad altri minerali, veniva estratto dalle miniere in un concentrato chiamato “caliche”.
Il controllo e i benefici dell’intero sistema produttivo – così come la gestione politica – da parte delle élite nazionali si concentrarono quindi a Santiago e in poche altre città importanti. Di conseguenza, i contadini poveri e affamati convergevano sempre più verso di esse, fino a formare enormi zone di miseria, malattia, desolazione e morte intorno ai centri relativamente sviluppati e ricchi.
Il campo di missione di Mariano
È questa la realtà che Mariano Avellana si trovò ad affrontare non appena messo piede a Santiago, dove i missionari clarettiani erano arrivati solo tre anni prima per fare del Cile il primo Paese in cui sarebbero riusciti a consolidarsi al di fuori della loro patria, la Spagna, e iniziare a diffondersi in tutta l’America.
Animati dal carisma del Fondatore, i suoi figli avevano accettato di stabilirsi proprio in uno dei settori più miseri e abbandonati della nascente capitale del Paese. Impegnati a fondo in questa realtà, i missionari non solo evangelizzarono una popolazione molto povera, per lo più analfabeta, con uomini schiavizzati dall’alcolismo e con la conseguente violenza familiare. Hanno anche distribuito cibo, insegnato a produrre alimenti e medicine naturali in assenza di servizi medici, hanno istituito una scuola e presto hanno iniziato la costruzione di una chiesa dedicata al Cuore della Madre, che sarebbe poi diventata la prima Basilica del Cuore di Maria al mondo.
Da questa sede principale, Padre Mariano andò in missione nelle parrocchie, nelle cappelle agricole e nei campi della zona circostante. A poco a poco estese il suo raggio d’azione, viaggiando a cavallo, su carri, a piedi, sui primi treni che percorrevano il paese o nelle stive di vecchie navi da carico.
Introducendosi nelle slums, dove regnavano sovraffollamento, squallore, pestilenza e sofferenze di ogni genere, “percorse più di 1.500 chilometri attraverso il Paese, svolgendo la missione senza sosta”. Anche se un dolorosissimo herpes gli erose il ventre per 20 anni fino alla morte, nel mezzo del quale gli scoppiò una ferita alla gamba che, lungi dal guarire, crebbe fino alle dimensioni di una mano aperta e lo accompagnò fino alla morte. Tuttavia, non menzionò mai questi problemi, non rallentò il suo ritmo di lavoro a causa di essi, e continuò persino a cavalcare attraverso i campi e le montagne della folle geografia cilena.
Il sanguinoso caliche
L’ambizione per il salnitro scatenò l’avidità internazionale e il conflitto tra i tre Paesi produttori. Sei anni dopo l’arrivo di Mariano, nel 1879 il Cile intraprese un conflitto armato contro il Perù e la Bolivia, paradossalmente noto come “Guerra del Pacifico”, ma più precisamente come “Guerra del salnitro”. Il Cile vinse e si annetté le regioni desertiche che prima erano peruviane e boliviane. Oggi sono le più grandi del Paese e le più ricche di risorse minerarie.
Di conseguenza, una “corsa all’oro bianco” ha seminato il deserto di miniere di salnitro, migliaia di chilometri di ferrovie e una concentrazione senza precedenti di lavoratori, che gradualmente vi si sono affollati con le loro famiglie.
Il capitale di sfruttamento avrebbe dovuto essere cileno, ma lo Stato privatizzò le operazioni per ottenere alte tasse per le casse fiscali, e così le cosiddette “Oficinas Salitreras” finirono nelle mani di capitali prevalentemente inglesi e di altri Paesi.
Gli enormi contrasti sociali, le ingiustizie e gli abusi sul lavoro che si erano verificati nelle fattorie tradizionali si ripeterono e aumentarono. Tanto che i salari non venivano pagati in denaro, ma in gettoni scambiabili con cibo e prodotti di prima necessità solo nei negozi chiamati “pulperías” di proprietà degli stessi datori di lavoro, che, con onorevoli eccezioni, commettevano così abominevoli usure.
Ma l’enorme sviluppo dell’industria mineraria divenne anche un nuovo campo di evangelizzazione per i figli di Claret, e soprattutto per padre Mariano. Risiedendo per molti anni nelle comunità aperte a La Serena e Coquimbo, a circa 480 km a nord della capitale, si recò nelle miniere situate nella zona di Copiapó – l’attuale regione di Atacama – e più a nord, nella regione di Antofagasta. Nonostante in quelle zone regnassero l’irreligiosità, l’ubriachezza, la dissolutezza, la prostituzione e l’abuso delle donne, l’uomo conosciuto come “Apostolo del Nord” levò ovunque la sua voce potente per scuotere le coscienze, correggere i corsi, ricomporre le famiglie e cristianizzare gli ambienti.
Tuttavia, l’ingiustizia sociale portò a grandi tragedie. Padre Mariano era già morto quando, nel 1907, gli operai di vari stabilimenti di salnitro entrarono in sciopero e, con le loro mogli e i loro figli, scesero in massa dalle miniere della Cordigliera delle Ande alla direzione del porto di Iquique, a circa 1.800 km a nord di Santiago, per chiedere salari e lavoro migliori. Si sono riuniti presso la Scuola di Santa Maria e sono stati presto raggiunti da altri sindacati, fino a quando il porto è stato praticamente paralizzato.
Di fronte agli ordini del governo di Santiago, le forze militari ordinarono agli scioperanti di lasciare la scuola e la città. Al loro rifiuto, uomini, donne e bambini sono stati uccisi senza pietà. Secondo il governo, sono state uccise 126 persone. Ma diverse fonti hanno stimato il bilancio delle vittime tra le 2.200 e le 3.600 unità. La cifra esatta non è mai stata chiarita.
Alfredo Barahona ZuletVicepostulatore, Causa di V. P. Mariano Avellana, cmf
Mariano Avellana, considerato il più grande evangelizzatore in oltre 150 anni di storia dei Missionari Clarettiani nei confini dell’America, è un’occasione particolarmente propizia per proiettare la sua figura al presente. In questo modo possiamo immaginare con quali messaggi e azioni percorrerebbe oggi migliaia di chilometri, rispetto a quelli che un tempo portava in terra cilena, nelle oltre 700 missioni, esercizi spirituali e riflessioni profonde che, con abnegazione e sofferenze “eroiche”, ha predicato per più di 30 anni; soprattutto ai malati, ai carcerati e ai più trascurati dalla società.
Mariano, instancabile nel suo desiderio di cristianizzare il Paese sconosciuto dove si sentiva inviato a diventare “o santo o morto”, alzò la voce e cercò di trasformare, secondo il Vangelo e la realtà del suo tempo, l’empietà religiosa, le situazioni di peccato, l’ingiustizia e gli enormi abusi contro i più deboli che incontrava in quel luogo. E non smise di farlo fino a quando non cadde morto nell’ultima delle sue missioni.
La missione nel mondo di oggi
Le realtà di oggi sono certamente molto diverse da quelle del passato. Un mondo globalizzato ha scelto in larga misura un modello di sviluppo distruttivo per l’ambiente, a un livello che sta portando la specie umana sull’orlo dell’estinzione. In mezzo a ciò, situazioni di miseria, abuso o persecuzione hanno scatenato migrazioni massicce di esseri disperati che, inseguendo il miraggio dell’abbondanza, muoiono a migliaia nell’oceano o sono impediti ad entrare nella moderna Jaujas, nella sofferenza, nell’abuso e nella morte. Possiamo supporre che Mariano Avellana avrebbe taciuto tutto questo nei suoi estenuanti viaggi missionari?
Le decine di guerre endemiche che non interessano a nessuno, e quelle nuove che fanno notizia per l’ampiezza dei loro orrori e per la possibile escalation che potrebbe portare a un conflitto globale dalle conseguenze inimmaginabili per l’intera umanità, non rientrerebbero forse nelle esigenze di consapevolezza e di azione coerente che Mariano rivendicherebbe come obblighi primari dei cristiani di oggi?
Gli innumerevoli abusi, le ingiustizie e le umiliazioni dei più deboli che oggi prevalgono nell’economia, nel lavoro e in altri ambiti delle relazioni personali e sociali, così come le violazioni dei diritti essenziali, siano essi alla vita, all’integrità, alla salute, al cibo, a un salario equo, alla casa, all’istruzione, alla protezione dei bambini, delle donne maltrattate e uccise, degli anziani abbandonati e di tante altre realtà, non sarebbero forse temi urgenti per la parola e l’azione di quell’illustre discepolo di Claret che era Mariano Avellana?
Non possiamo pensare che sarebbe rimasto impassibile e non avrebbe chiesto ai cristiani di “darsi da fare”, come lo esorta a fare Papa Francesco. Ancor meno resterebbe in silenzio di fronte a più di 36.000 morti, per lo più donne, bambini e anziani innocenti, a più di 78.000 feriti, a 1.500.000 sfollati sotto la minaccia delle armi e alla distruzione di oltre il 70% dell’intera infrastruttura della Striscia di Gaza, una parte consistente della terra in cui il Figlio di Dio piantò la sua tenda e augurò innumerevoli volte la pace.
E non farebbe lo stesso di fronte alla guerra tra Russia e Ucraina, che risale ad almeno 10 anni fa e che negli ultimi due anni ha provocato più di 80.000 morti.
Un esempio che interroga e chiede
Come guiderebbe i suoi missionari di fronte a questi e ad altri flagelli del nostro mondo odierno, possiamo solo immaginarlo. Ma conoscendo il modo in cui si è avvicinato al suo mondo con le parole e le azioni, è possibile dedurre che tipo di missionario sarebbe oggi Mariano Avellana.
A 120 anni dalla sua morte, vale la pena non solo riflettere, ma soprattutto estrarre l’esempio che la sua figura offre a tutta la famiglia clarettiana, religiosi e laici, uomini e donne, per i quali il suo passaggio sulla terra non è un semplice modello da contemplare, ma un esigente paradigma di vita e azione missionaria secondo il pieno carisma di Antonio Maria Claret. Questa è stata la fonte che ha ispirato Mariano a essere l’illustre missionario che desideriamo vedere sugli altari; una testimonianza di ciò che significa essere un missionario “che arde nella carità, arde ovunque vada e cerca con ogni mezzo la gloria di Dio e la salvezza degli esseri umani”.
Alfredo Barahona Zuleta
Vicepostulatore, Causa del Ven. P. Mariano Avellana, cmf
Con la fine dell’anno 2023, si è conclusa anche la commemorazione dei 150 anni da quando il Venerabile P. Mariano Avellana mise piede nei confini dell’America, sbarcando in Cile.
Dalla Provincia Clarettiana di San José del Sur, che attualmente riunisce le comunità missionarie di Argentina, Cile, Uruguay e Paraguay, ci si è sforzati affinché, utilizzando i moderni mezzi di comunicazione, soprattutto quelli telematici, con le scarse risorse finanziarie a disposizione, fosse possibile proiettare all’ampia famiglia clarettiana internazionale l’esempio mirabile di uno dei più grandi apostoli che la “grande opera” di Padre Claret ha regalato al mondo.
In questo modo, la testimonianza della forza soprannaturale con cui l’emblematica risoluzione “O santo o morto” ha permesso a Mariano Avellana di offrire 31 instancabili anni di vita alla missione affidata dal santo Fondatore ai suoi figli, ha confermato ben oltre le frontiere americane che la radicalità nell’evangelizzazione, come l’aveva sognato Claret, può diventare “eroica”, superando per decenni sofferenze che molti altri si sarebbero autogiustificati a riposare, e facendolo fino a cadere morti.
Padre Mariano, che nei suoi ultimi 20 anni di instancabile missione ha sopportato una sorta di martirio quotidiano con un dolorosissimo herpes, a cui si aggiungeva una ferita crescente e mai rimarginata a una gamba, che lo ha tormentato per 10 anni fino alla morte, offre una testimonianza in un certo senso paragonabile a quella dei suoi 184 confratelli della congregazione oggi beatificati, che hanno offerto la loro vita come martiri, affrontando le pallottole dei loro assassini invece di rinunciare al loro impegno religioso e missionario.
In questo modo, l’ammirevole testimonianza di padre Mariano come “missionario fino alla fine” ha potuto trascendere in questa commemorazione del 2023 del sesquicentenario del suo arrivo alla fine dell’America, come degna che tutta la famiglia clarettiana nel mondo invochi il Signore implorandolo per il miracolo che, come unico requisito mancante, possa dare il via alla sua glorificazione terrena attraverso la beatificazione.
Incoraggiare così che la sua intercessione venga invocata in casi estremi di malattia o incidenti, costituisce per la famiglia clarettiana un impegno di gratitudine verso uno degli esponenti più completi del carisma missionario clarettiano, degno di mostrare dagli altari come la fedeltà alla volontà del Signore nella propria vita possa superare, con la forza dello Spirito, i limiti umani, fino a raggiungere l’eroismo.
Nato in Miralcamp (Lérida) il 4 ottobre 1912, fin da piccolo lasciava intravvedere una spiccata attrazione alla preghiera e al raccoglimento.
Entrò dapprima nel Seminario diocesano di Solsona e poi in quello Clarettiano di Vic.
Pronunciò i voti religiosi il 15 agosto del 1929. II seguito della carriera fu reso difficile dalla legge sul servizio militare e dalla particolare congiuntura.
Già dal 1931 intuisce il pericolo e scrive a casa: «Per quanto concerne la situazione attuale, viviamo alla giornata. Ci mettiamo nelle mani di Dio perché può accadere di tutto».
«Siamo sereni – scriveva nel dicembre del 1934 – in mezzo all’incertezza che regna dappertutto e può capovolgere le cose da un giorno all’altro».
Risiedeva a Barbastro dall’agosto del 1935; al momento della prigionia aveva appena terminato gli studi teologici.
Si rendeva conto che gli eventi politici stavano precipitando e, rivolgendosi ai suoi nel dicembre dello stesso anno, diceva: «Da queste elezioni dipende la vita o la morte della Spagna e forse anche della Religione».
Due mesi più tardi parla dei brogli elettorali operati dalle sinistre che però, a Barbastro, non impedirono la stentata vittoria delle destre.
Nel giugno del ’36 sente la rivoluzione battere alle porte e partecipa ai parenti: «Qui c’è pace, per ora, grazie a Dio. Personalmente, non abbiamo subito sgarbi o fastidi, sebbene abbiano proibito di suonare le campane e si siano impadroniti del Seminario vescovile per rovinarlo. Purtroppo, così vanno le rivoluzioni…>>.
Piccolo di statura, vivace, suscettibile; gli costò non poca fatica arrivare al dominio di se stesso.
Chiuse l’avventura terrena, dando la vita per Cristo, il 13 agosto del 1936.
Le parole estreme sono di abbandono in Dio: «Si faccia sempre, o Signore, la tua divina volontà!».
PADRE CLARET E LA STAMPA
Nessuno ignora che quasi tutti i mali insanabili che la società moderna deplora hanno origine in questa stampa libertina che, sotto il titolo di libertà e progresso, inocula veleno nelle anime e sgretola l’edificio della società.
E poiché è anche vero che per impedire l’efficacia di un veleno è necessario contrastarlo con un controveleno, vorremmo ricordare, esaltandone la memoria, quell’uomo apostolico che tanto ha fatto per infliggerlo alla società in cui gli toccava vivere. Parliamo di V.P. Anthony Ma Claret, per il quale la Chiesa sta preparando in questi giorni il supremo onore degli altari. Chi dubita di questa affermazione deve solo dare una rapida occhiata alla sua opera, che nessun altro ha eguagliato, come scrittore popolare, e si convincerà a sufficienza che è difficile trovare qualcuno nel XIX secolo che abbia fatto tanta propaganda cattolica, attraverso la stampa, quanto Claret, e che difficilmente si troverà un rivale in questo senso nei secoli precedenti.
Se volessimo dare in poche parole un’idea generale di ciò che scrisse, diremmo che scrisse di apologetica, di morale, di ascetica e mistica, di arti e scienze, di oratoria e agricoltura. In particolare, non c’era ramo delle materie ecclesiastiche su cui non scrivesse qualcosa. Si noti però che si considerano opuscoli quegli scritti che non superano le 60 pagine. È vero che non è l’autore originale di alcuni di essi, ma li ha tradotti o migliorati in modo tale da renderli quasi suoi. Ma è difficile apprezzare il merito e il lavoro che tanta scrittura comporta se non si tiene conto della continua e gravosissima occupazione che lo ha travolto e che, se non fosse stato per don Claret, gli avrebbe reso materialmente impossibile scrivere qualcosa. Non aveva altra scelta che rubare tempo al sonno. Molte persone sagge e virtuose, tra cui il Rmo. Orge, l’ex generale dei domenicani, non riuscivano a spiegarsi tanta attività se non con un intervento divino.
Non contento di aver scritto tanto e su tanti argomenti diversi, incoraggiava altri a fare lo stesso e non di rado ne pagava lui stesso la stampa. Ma la sua opera più grande, in questo campo della propaganda cattolica, è la fondazione della Libreria religiosa e dell’Accademia di San Michele; opere, secondo la mente del fondatore, destinate esclusivamente a inondare la società, che geme sotto il peso di tanti cattivi libri e opuscoli, con un diluvio di buoni libri.
Se le cifre sono il miglior panegirico, dobbiamo dire che la sola Libreria religiosa dal 1848, data della sua fondazione, al 1866 ha stampato 2.811.100 volumi di vario formato; 2.509.800 opuscoli e 4.249.200 manifesti e foglietti di catechismo. Totale: 8.569.800 copie. Più di mezzo milione all’anno. Dal 1879 al 1902 ne ha stampati un milione e seicentosettantamila.
In meno di nove anni di esistenza dell’Accademia di San Michele, distribuì gratuitamente 1.734.000 libri, corrispondenti in media a 120.000 all’anno; 1.734.004 stampe, 25.311 medaglie, 2.112 crocifissi e 10.201 rosari. Inoltre, sono stati prestati 20.396 libri e distribuiti un numero infinito di fogli sciolti e opuscoli. Se P. Claret, in tutta la sua vita, non avesse fatto altro che fondare la Libreria religiosa e l’Accademia di San Michele, meriterebbe seriamente che gli venisse eretto un monumento come apostolo della stampa cattolica. E che dire se consideriamo che la maggior parte di questi scritti sono opera sua? Si sa che il numero di volumi dei suoi libri e opuscoli supera le 6.000.000 di anime su 150 edizioni conosciute e di cui non conosciamo il numero di copie. E che dire dei fogli volanti, le cui edizioni erano molto più numerose? La sola tipografia di Aguado, a Madrid, ne pubblicò in breve tempo 280, che sommati a quelli della Librería Religiosa danno la cifra di 4.723.280 copie. Ed è da notare che quasi tutti questi fogli recano stampe allegoriche, disegnate dallo stesso Servo di Dio. Altre librerie pubblicarono opere di padre Claret che andarono ad aggiungersi alle cifre già indicate. Quale scrittore in così poco tempo ha mai potuto vedere un numero così prodigioso di copie delle sue opere?
E non si pensi che tutto questo sia stato dettato da un desiderio di profitto o di fama, no, ma piuttosto che sia stato il primo a pagare i costi di stampa e a distribuire tutto gratuitamente. Lui stesso afferma che nel 1863 lasciò alla Librería Religiosa 4.000 duri. A Cuba distribuì più di 200.000 libri. Nei viaggi che fece con i re in Spagna, aveva fatto in modo che in ogni città in cui si fermassero trovasse una scatola di libri da distribuire. Solo nel viaggio che fece nel sud della Spagna nel 1862, distribuì più di 85 arrobas (“arroba” = 12,4 kg) di libri, opuscoli e volantini.
Per concludere: se il grande poeta catalano Verdaguer poteva veramente dire che “L’instancabile Apostolo della Catalogna era stato il primo, il più attivo e il più popolare propagandista che la stampa catalana avesse avuto nel suo secolo”, dobbiamo dire altrettanto dell’Apostolo delle Isole Canarie, di Cuba, di tutta la Spagna; perché con uguale zelo esercitò il suo apostolato in esse, quell’anima gigante, per le cui imprese il mondo era piccolo.
Missionario clarettiano. 23 anni. Studente di teologia. È nato ad Almatret, un piccolo villaggio della Provincia e Diocesi di Lérida, in Spagna, il 18 agosto 1913. La morte prematura della madre fece in modo che José María basasse la sua formazione sulle cure del padre e degli insegnanti. Non sorprende che in José María abbia sempre avuto un carattere un po’ scontroso, anche se con un modo di fare simpatico, ” sincero e senza fronzoli, e con un senso della giustizia ben sviluppato”. Il suo insegnante, colpito dalle qualità del ragazzo, gli suggerì di frequentare un seminario per religiosi. – E cosa sarei?” chiese il ragazzo. – Forse un grande scienziato. Il fatto è che José Maria, con l’intuizione di un ragazzo, vide che era opera di Dio, perché al compagno che voleva dissuaderlo, rispose con calma: “Ho una vocazione, e solo Dio può togliermela”. E al padre, che lo visitava in Seminario e lo metteva alla prova chiedendogli perché non se ne andasse una volta terminati gli studi, rispose: “No; sarebbe stato un comportamento scorretto nei confronti della Congregazione”. Inoltre, ho una vocazione e voglio essere fedele alla chiamata di Dio”. Così disponendo, raggiunse il noviziato e fu professione nella Congregazione dei Figli Missionari del Cuore di Maria il 15 agosto 1930. Sul punto di completare gli studi, fu martirizzato il 13 agosto 1936. Prima di morire, firmò il suo nome con un patriottico e religioso “Viva la Spagna cattolica”. È stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1992.
Beato P. Claret Pensatore
Poiché esistono molti prismi che rifrangono la luce della realtà verso Dio, secondo le perfezioni sotto le quali lo consideriamo, P. Claret ha scelto la sua eternità. Il pensiero dell’eternità era come una chiave magica e metteva in moto tutte le forze del suo cuore. Già da bambino, all’età di quattro o cinque anni, quando non riusciva a dormire, si sedeva sul suo letto e lì, in santo raccoglimento e con gli occhi rivolti al cielo, passava le ore pensando al terribile “sempre”…. mai” delle sofferenze dell’inferno; facendo calcoli numerici sull’eternità e non arrivando mai alla fine; considerando l’eternità di Dio, aveva il giusto valore delle cose di questo mondo, vedendo la loro sfuggevolezza, la loro realtà limitata e poco consistente, e la vaporosità del tempo; immerso in queste contemplazioni il suo spirito ardeva dell’amore del Signore ed era incoraggiato a pregare per la conversione dei peccatori e dei morenti.
Più tardi, mentre cercava di fare la sua scelta di stato, mosso dal ricordo dell’eternità che era stato così profondamente impresso in lui nella sua infanzia, e avendo rinunciato alle lusinghe che il mondo gli offriva, abbracciò coraggiosamente la via sacerdotale, e una volta salito i gradini del santo altare, lo si vede viaggiare instancabilmente attraverso la Spagna, le Canarie, mettersi agli ordini di Propaganda Fide, andare a Cuba, predicando ovunque il “tempus non est amplius”, “non c’è più tempo”; questo è stato il vertice attorno al quale si è sviluppata l’attività di p. Claret, che ha avuto un ruolo di primo piano. questo era il motivo della sua predicazione e dei suoi scritti; questo era il fine a cui indirizzava tutti i suoi sforzi per conquistare le anime per Gesù Cristo.
Un altro frutto del pensiero dell’eternità fu il motto che, come un fedele soldato di Cristo, espose sul suo scudo, l’ardente “charitas Christi urget nos”, la carità di Cristo e lo zelo per la salvezza delle anime mi spinge; il vedere la brevità del tempo e quanto c’è da fare per conquistare il mondo a Gesù Cristo mi stimola e mi spinge in modo tale che sento il mio petto ardere dal desiderio di percorrere il mondo intero e salvarlo con la predicazione della dottrina di Gesù Cristo e la brevità delle cose umane.
Padre Claret non si sbagliava certo nel considerare le cose di questo mondo, perché com’era possibile che fosse così, se considerava ogni cosa in relazione a Dio, al quale appartiene per essenza, per essere immutabile, eterno, il centro della nostra felicità e la ragione suprema di tutto ciò che esiste?
Che Dio susciti molti uomini come Claret che predichino l’eternità di Dio e la limitatezza di ciò che è sotto i nostri occhi e che facciano ragionare un po’ di più le diverse classi della società attuale. Oh! Se considerassimo le cose sotto il prisma dell’eternità, cioè se fossimo dei pensatori, quanto sarebbero diversi gli uomini del secolo attuale e quanto sarebbe diverso l’aspetto del mondo spirituale delle anime.
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