CONTA DI PIÙ IL COME CHE IL CHE COSA
Un principio molto antico di spiritualità diceva che bisogna essere in ordinariis non ordinarius, che potrebbe tradursi come ‘realizzare la propria attività con eleganza’, e cioè, evitando la grossolanità.
Forse spesso ci immaginiamo che la santità consiste nel fare cose grandiose, «straordinarie». È un grande errore. Già san Paolo esortava a «svolgere il proprio lavoro con tranquillità»(1Tes 4,11), e sant’Ignazio di Loyola, di fronte ad alcune obiezioni di san Francesco Saverio a iniziare una nuova rotta, gli diede la risposta che José Maria Pemán mise in versi molto bene: «… Javier, / non c’è virtù più eminente / che fare semplicemente / quello che dobbiamo fare» (da: Il divino Impaziente).
In relazione a questo, vale la pena ricordare un simpatico aneddoto di Claret nel noviziato dei gesuiti a Roma. Quando, ogni giovedì, i novizi andavano a giocare in un frutteto, egli avrebbe preferito dedicare il tempo allo studio o alla preghiera, ma il rettore non me lo permise, ma «mi rispose secco -dice Claret- che giocassi e giocassi bene. Mi ci misi con tanto impegno da vincere tutte le partite» (Aut 149).
Al P. Claret, sempre comprensivo con gli altri, non piacevano le cose fatte a metà. Sono degne di nota le sue lamentele verso coloro che dirigevano la Libreria Religiosa o lavoravano per essa quando non sceglievano una buona carta o un bel tipo di lettera, o non facevano bene la rilegatura. Optò sempre per le cose ben fatte. Ma non si adeguava mai alla materialità dell’opera. Gli interessava il perché e il per chi della stessa: la rettitudine d’intenzione; conosciamo la sua ripetuta frase: fare tutto perché Dio sia conosciuto, amato e servito.
Oggi si parla molto di «autorealizzazione»: quello che facciamo deve essere pianificato, umanamente arricchente; le frustrazioni non sono sane. Ma anche lo è la ricerca ansiosa dell’autoesaltazione, o di essere al di sopra degli altri.
Sono corrette le motivazioni del nostro servizio apostolico? Vi è qualche emulazione o motivazione dannosa?